CAMBRIDGE – C’era quasi da sentirsi dispiaciuti per il presidente della Federal Reserve americana Jerome Powell quando, durante la testimonianza al Congresso nel settembre scorso, ha espresso frustrazione per le pressioni inflazionistiche sull’economia americana. La cosa positiva è che ha finalmente riconosciuto l’esistenza di un’inflazione destinata a durare ben più di qualche mese.
Ma poi è andato avanti dicendo che la politica monetaria espansiva della Fed non aveva alcuna responsabilità in merito. Tale politica prevede tassi di interesse nominali a breve termine vicini allo zero, un ampliamento del bilancio della Fed fino alla strabiliante cifra di 8 trilioni di dollari, e la prosecuzione del programma di acquisti di asset a un ritmo mensile di 120 miliardi di dollari. Se c’è mai stata una politica monetaria aggressiva, è certamente questa.
Powell continua a insistere che il picco di inflazione attuale è dovuto perlopiù a colli di bottiglia temporanei e a problemi nelle catene di approvvigionamento, frutto della recessione causata dalla pandemia e della conseguente ripresa disomogenea. In quest’ottica, la Fed è soltanto un agente passivo che fa il possibile per fornire liquidità affinché l’inflazione dal lato dell’offerta non dissesti i mercati finanziari e l’economia in generale.
L’interpretazione degli eventi attuali da parte di Powell mi ricorda la posizione della banca centrale tedesca quando, nel 1923, era incaricata di sorvegliare l’iperinflazione del paese dopo la Prima guerra mondiale. Secondo la Reichsbank, l’inflazione derivata dalla carenza di beni era attribuibile agli stranieri, le cui irragionevoli richieste di risarcimento dei danni di guerra avevano causato un forte deprezzamento del marco tedesco. In questo scenario, la Reichsbank era un agente passivo, impegnato al massimo a stampare moneta per stare al passo con l’aumento dei prezzi. Come nel caso di Powell, la responsabilità dell’inflazione era stata addossata ad altri – in questo caso gli stranieri – anziché alle politiche stesse della banca centrale.
Senza dubbio, la versione della Reichsbank non era del tutto sbagliata. Poiché il governo tedesco e la banca centrale dipendevano dai redditi del signoraggio per pagare i risarcimenti, è vero che tali pagamenti causarono l’espansione monetaria e la conseguente inflazione. Ma la volontà della Reichsbank di coniare moneta restava comunque un aspetto chiave della storia.
Allo stesso modo, Powell non sbaglia del tutto quando attribuisce l’inflazione, almeno in parte, alle interruzioni nelle catene di approvvigionamento. Ma la volontà della Fed di riequilibrare questo processo mediante l’espansione monetaria, anziché combattendo l’inflazione con l’aumento dei tassi di interesse e la liquidazione degli asset, resta un fattore cruciale.
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In ogni caso, se fossero state le principali protagoniste nel 2020-21, le interruzioni nelle forniture avrebbero anche dovuto ostacolare pesantemente la ripresa del Pil reale (al netto dell’inflazione). Eppure, nel secondo e (si stima) terzo trimestre del 2021, la solida ripresa a “V” registrata a partire dal terzo trimestre del 2020 aveva già riportato il Pil reale statunitense più o meno al suo livello 2019 al netto del trend.
Questo modello a V era prevedibile, dal momento che la recessione nella prima metà del 2020 è stata essenzialmente una scelta volontaria di chiudere gran parte dell’economia in risposta alla diffusione del Covid-19. Una volta che la chiusura è stata sostanzialmente revocata, era ragionevole aspettarsi che l’economia sarebbe tornata ai suoi livelli precedenti in tempi brevi. Inoltre, resta da chiarire se questa rapida ripresa sia dovuta più alla politica monetaria espansiva o alla politica fiscale aggressiva che l’accompagna.
Per quanto riguarda la politica fiscale, l’aggiunta di trilioni di dollari di spesa federale e debito pubblico è stata a dir poco straordinaria. Alcuni elementi di questa politica possono aver contribuito alla ripresa, in particolare i sussidi che hanno aiutato a mantenere un collegamento tra i lavoratori e le imprese. È tuttavia probabile che l’eccesso di esborsi ai disoccupati abbia ostacolato la ripresa dell’occupazione.
Dal punto di vista di una crescita economica a lungo termine, un buon pacchetto di investimenti nelle infrastrutture potrebbe risultare una valida opzione. Tuttavia, pretesti per spendere dollari federali basati sulla pandemia vengono sempre più utilizzati non per sostenere la ripresa o una crescita a lungo termine, ma piuttosto per alimentare sogni socialisti di un welfare state esteso in modo permanente.
Questa visione ha raggiunto l’apoteosi con l’agenda Build Back Betterdel presidente Joe Biden, che comprende quattro nuovi programmi assistenziali. Francamente, non mi ero reso conto che il problema della politica statunitense fosse una carenza di programmi di questo tipo. Ricordo ancora quando, nel 1996, Bill Clinton proclamava la fine dell’era del big government. Dov’è Clinton quando c’è bisogno di lui?
Il mio timore è che il passaggio a un settore pubblico esteso in modo permanente possa ostacolare i progressi dell’economia americana negli anni a venire. Per certi versi, sembra che stiamo imitando l’agenda socialista dell’Europa occidentale, ma con l’importante differenza che una parte sostanziosa del gettito fiscale europeo proviene dalla tassa sul valore aggiunto (IVA).
In assenza di un’imposta sui consumi comparativamente efficiente, gli Stati Uniti ricorreranno sempre di più a imposte sul capitale inefficienti (tasse sui profitti aziendali, sulle plusvalenze, sulla proprietà, sul patrimonio complessivo e così via). Inoltre, si punterà a una progressività più ripida delle categorie reddituali per le persone fisiche che, come compreso dal presidente Ronald Reagan negli anni ’80, comporta l’applicazione di inefficienti aliquote marginali elevate ai redditi individuali più alti.
Per tornare alle previsioni sui prezzi, nel settembre 2021 il tasso di inflazione medio sui prezzi al consumo calcolato su 12 mesi era pari al 5,4% (in base all’IPC complessivo). Questo indicatore d’inflazione, simile ad altre misure standard, è destinato quasi certamente ad aumentare dal momento che le cifre minime registrate nel periodo ottobre-dicembre 2020 escono dalla media. Di fatto, tra gennaio 2021 e settembre 2021, il tasso di inflazione medio annuo IPC è stato del 6,9%.
In questo contesto, un segnale piuttosto preoccupante è la mossa di Biden di attribuire la colpa dell’impennata dei prezzi alle avide compagnie petrolifere e altre multinazionali. In un discorso del 16 settembre scorso ha affermato: “Stiamo… dando la caccia ai malintenzionati e a chi specula sulla pandemia nella nostra economia. Numerose prove dimostrano che i prezzi del gas dovrebbero essere in calo, ma così non è. Indagheremo attentamente sul perché”. Il presidente Richard Nixon si era ammantato di una retorica simile negli anni ’70, poco prima di introdurre controlli sui prezzi che provocarono danni economici peggiori di quelli causati da un’inflazione aperta.
L’avversione per quel periodo di inflazione portò il presidente Jimmy Carter, nel suo momento migliore, a nominare Paul Volcker alla guida della Fed nel 1979. Volcker non fu immediatamente considerato un eroe quando riconobbe che porre fine all’inflazione elevata dei primi anni ’80 (già sotto la presidenza Reagan) avrebbe implicato una grave recessione. Col passare del tempo, però, il suo status di celebrità si rafforzò man mano che il suo intervento per contenere l’inflazione si rivelò duraturo.
Oggi Powell rischia di guadagnarsi una reputazione opposta. Finora è riuscito a evitare grandi critiche personali, ma se l’aspettativa di un’inflazione elevata dovesse consolidarsi, sarà sempre più additato come responsabile. Prima di arrivare a tanto, Powell dovrebbe optare per una politica monetaria restrittiva alla Volcker, che freni l’inflazione prima che sia troppo tardi. Quello che mi preoccupa, parafrasando il senatore Lloyd Bentsen durante il dibattito tra i candidati alla vicepresidenza nel 1988, è che si potrebbe legittimamente guardare Powell e dire: “Lei non è Paul Volcker”.
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CAMBRIDGE – C’era quasi da sentirsi dispiaciuti per il presidente della Federal Reserve americana Jerome Powell quando, durante la testimonianza al Congresso nel settembre scorso, ha espresso frustrazione per le pressioni inflazionistiche sull’economia americana. La cosa positiva è che ha finalmente riconosciuto l’esistenza di un’inflazione destinata a durare ben più di qualche mese.
Ma poi è andato avanti dicendo che la politica monetaria espansiva della Fed non aveva alcuna responsabilità in merito. Tale politica prevede tassi di interesse nominali a breve termine vicini allo zero, un ampliamento del bilancio della Fed fino alla strabiliante cifra di 8 trilioni di dollari, e la prosecuzione del programma di acquisti di asset a un ritmo mensile di 120 miliardi di dollari. Se c’è mai stata una politica monetaria aggressiva, è certamente questa.
Powell continua a insistere che il picco di inflazione attuale è dovuto perlopiù a colli di bottiglia temporanei e a problemi nelle catene di approvvigionamento, frutto della recessione causata dalla pandemia e della conseguente ripresa disomogenea. In quest’ottica, la Fed è soltanto un agente passivo che fa il possibile per fornire liquidità affinché l’inflazione dal lato dell’offerta non dissesti i mercati finanziari e l’economia in generale.
L’interpretazione degli eventi attuali da parte di Powell mi ricorda la posizione della banca centrale tedesca quando, nel 1923, era incaricata di sorvegliare l’iperinflazione del paese dopo la Prima guerra mondiale. Secondo la Reichsbank, l’inflazione derivata dalla carenza di beni era attribuibile agli stranieri, le cui irragionevoli richieste di risarcimento dei danni di guerra avevano causato un forte deprezzamento del marco tedesco. In questo scenario, la Reichsbank era un agente passivo, impegnato al massimo a stampare moneta per stare al passo con l’aumento dei prezzi. Come nel caso di Powell, la responsabilità dell’inflazione era stata addossata ad altri – in questo caso gli stranieri – anziché alle politiche stesse della banca centrale.
Senza dubbio, la versione della Reichsbank non era del tutto sbagliata. Poiché il governo tedesco e la banca centrale dipendevano dai redditi del signoraggio per pagare i risarcimenti, è vero che tali pagamenti causarono l’espansione monetaria e la conseguente inflazione. Ma la volontà della Reichsbank di coniare moneta restava comunque un aspetto chiave della storia.
Allo stesso modo, Powell non sbaglia del tutto quando attribuisce l’inflazione, almeno in parte, alle interruzioni nelle catene di approvvigionamento. Ma la volontà della Fed di riequilibrare questo processo mediante l’espansione monetaria, anziché combattendo l’inflazione con l’aumento dei tassi di interesse e la liquidazione degli asset, resta un fattore cruciale.
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Questo modello a V era prevedibile, dal momento che la recessione nella prima metà del 2020 è stata essenzialmente una scelta volontaria di chiudere gran parte dell’economia in risposta alla diffusione del Covid-19. Una volta che la chiusura è stata sostanzialmente revocata, era ragionevole aspettarsi che l’economia sarebbe tornata ai suoi livelli precedenti in tempi brevi. Inoltre, resta da chiarire se questa rapida ripresa sia dovuta più alla politica monetaria espansiva o alla politica fiscale aggressiva che l’accompagna.
Per quanto riguarda la politica fiscale, l’aggiunta di trilioni di dollari di spesa federale e debito pubblico è stata a dir poco straordinaria. Alcuni elementi di questa politica possono aver contribuito alla ripresa, in particolare i sussidi che hanno aiutato a mantenere un collegamento tra i lavoratori e le imprese. È tuttavia probabile che l’eccesso di esborsi ai disoccupati abbia ostacolato la ripresa dell’occupazione.
Dal punto di vista di una crescita economica a lungo termine, un buon pacchetto di investimenti nelle infrastrutture potrebbe risultare una valida opzione. Tuttavia, pretesti per spendere dollari federali basati sulla pandemia vengono sempre più utilizzati non per sostenere la ripresa o una crescita a lungo termine, ma piuttosto per alimentare sogni socialisti di un welfare state esteso in modo permanente.
Questa visione ha raggiunto l’apoteosi con l’agenda Build Back Betterdel presidente Joe Biden, che comprende quattro nuovi programmi assistenziali. Francamente, non mi ero reso conto che il problema della politica statunitense fosse una carenza di programmi di questo tipo. Ricordo ancora quando, nel 1996, Bill Clinton proclamava la fine dell’era del big government. Dov’è Clinton quando c’è bisogno di lui?
Il mio timore è che il passaggio a un settore pubblico esteso in modo permanente possa ostacolare i progressi dell’economia americana negli anni a venire. Per certi versi, sembra che stiamo imitando l’agenda socialista dell’Europa occidentale, ma con l’importante differenza che una parte sostanziosa del gettito fiscale europeo proviene dalla tassa sul valore aggiunto (IVA).
In assenza di un’imposta sui consumi comparativamente efficiente, gli Stati Uniti ricorreranno sempre di più a imposte sul capitale inefficienti (tasse sui profitti aziendali, sulle plusvalenze, sulla proprietà, sul patrimonio complessivo e così via). Inoltre, si punterà a una progressività più ripida delle categorie reddituali per le persone fisiche che, come compreso dal presidente Ronald Reagan negli anni ’80, comporta l’applicazione di inefficienti aliquote marginali elevate ai redditi individuali più alti.
Per tornare alle previsioni sui prezzi, nel settembre 2021 il tasso di inflazione medio sui prezzi al consumo calcolato su 12 mesi era pari al 5,4% (in base all’IPC complessivo). Questo indicatore d’inflazione, simile ad altre misure standard, è destinato quasi certamente ad aumentare dal momento che le cifre minime registrate nel periodo ottobre-dicembre 2020 escono dalla media. Di fatto, tra gennaio 2021 e settembre 2021, il tasso di inflazione medio annuo IPC è stato del 6,9%.
In questo contesto, un segnale piuttosto preoccupante è la mossa di Biden di attribuire la colpa dell’impennata dei prezzi alle avide compagnie petrolifere e altre multinazionali. In un discorso del 16 settembre scorso ha affermato: “Stiamo… dando la caccia ai malintenzionati e a chi specula sulla pandemia nella nostra economia. Numerose prove dimostrano che i prezzi del gas dovrebbero essere in calo, ma così non è. Indagheremo attentamente sul perché”. Il presidente Richard Nixon si era ammantato di una retorica simile negli anni ’70, poco prima di introdurre controlli sui prezzi che provocarono danni economici peggiori di quelli causati da un’inflazione aperta.
L’avversione per quel periodo di inflazione portò il presidente Jimmy Carter, nel suo momento migliore, a nominare Paul Volcker alla guida della Fed nel 1979. Volcker non fu immediatamente considerato un eroe quando riconobbe che porre fine all’inflazione elevata dei primi anni ’80 (già sotto la presidenza Reagan) avrebbe implicato una grave recessione. Col passare del tempo, però, il suo status di celebrità si rafforzò man mano che il suo intervento per contenere l’inflazione si rivelò duraturo.
Oggi Powell rischia di guadagnarsi una reputazione opposta. Finora è riuscito a evitare grandi critiche personali, ma se l’aspettativa di un’inflazione elevata dovesse consolidarsi, sarà sempre più additato come responsabile. Prima di arrivare a tanto, Powell dovrebbe optare per una politica monetaria restrittiva alla Volcker, che freni l’inflazione prima che sia troppo tardi. Quello che mi preoccupa, parafrasando il senatore Lloyd Bentsen durante il dibattito tra i candidati alla vicepresidenza nel 1988, è che si potrebbe legittimamente guardare Powell e dire: “Lei non è Paul Volcker”.