NEW YORK – Per scongiurare un cambiamento climatico dagli effetti catastrofici serve una società civile forte e attiva. La prossima Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP28) a Dubai quasi certamente dimostrerà ancora una volta che, se ci affidiamo a istituzioni grandi e potenti come i governi e le multinazionali, il fallimento è assicurato.
Le aziende di combustibili fossili sono consapevoli di aver contribuito al cambiamento climatico fin dagli anni settanta, ma nonostante questo continuano a trivellare e a espandere le loro operazioni. Sebbene i governi abbiano formalmente affrontato il problema con l’adozione della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) e dell’Accordo di Parigi sul clima, l’ultimo Production Gap Report mostra quanto poco significhino questi impegni nella pratica. Tra adesso e il 2030, la produzione nei venti principali paesi produttori di combustibili fossili sarà più che raddoppiata rispetto alla quantità utile a contenere il riscaldamento globale entro 1,5° Celsius.
L’autoregolamentazione da parte dei governi e delle aziende di combustibili fossili è purtroppo insufficiente, anche perché spesso essi sono una cosa sola. Per troppo tempo, gli uni e le altre hanno cercato di placare i timori dei cittadini promuovendo un ambientalismo di facciata, il cosiddetto greenwashing, e la promessa di soluzioni tecnologiche miracolose come la cattura e lo stoccaggio del carbonio. E qualora tali stratagemmi non riescano ad acquietare alcuni segmenti dell’opinione pubblica, molti di questi stessi governi e aziende sono fin troppo pronti a ricorrere alla soppressione della libertà di espressione, di associazione e di assemblea pacifica.
Solo attraverso l’azione collettiva, il supporto attivo e la partecipazione della società civile ai processi decisionali si potranno costringere i governi a fare quanto è necessario per eliminare gradualmente i combustibili fossili, sostenere la transizione verso le rinnovabili e proteggere i diritti umani in un mondo caratterizzato da condizioni climatiche e siccità sempre più estreme. Ma la società civile non può prosperare senza uno spazio civico, cioè uno spazio per il dibattito pubblico in cui i cittadini possano criticare o sollecitare i potenti senza timore o rischio di repressione. Alla COP28, al di fuori del perimetro protetto della “zona blu”delle Nazioni Unite, di fatto non ci sarà alcuno spazio civico.
Dubai è una delle città più costose al mondo, il che significa che vitto, alloggio e altre spese avranno costi proibitivi per la maggior parte delle persone, specialmente quelle svantaggiate ed emarginate, che sono tra le più colpite dalla crisi climatica. Inoltre, negli Emirati Arabi Uniti è illegale anche solo criticare il governo o esprimere idee ritenute “dannose per l’interesse pubblico”, e gli stranieri possono essere arrestati per commenti fatti mentre si trovano nel paese. Durante la primavera araba del 2011 qualunque accenno di dissenso è stato represso in modo rapido e con la forza. Ancora oggi, decine di attivisti per i diritti umani e dissidenti sono detenuti arbitrariamente – tra questi sessanta membri di “UAE-94”, poi sottoposti a un processo collettivo nel 2013. Quattro anni dopo, gli Emirati Arabi Uniti hanno arrestato Ahmed Mansoor, l’unico emiratino rimasto ancora attivo sul fronte pubblico nella difesa dei diritti umani.
Il governo ha proseguito la sua attività di repressione in vista della COP28 interrompendo le comunicazioni tra molti prigionieri e le loro famiglie, incriminando gli emiratini rimpatriati dopo aver cercato rifugio all’estero, e respingendo gli appelli dell’Onu per la liberazione dei prigionieri di coscienza.
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Gli Emirati Arabi Uniti sono anche tristemente famosi per l’uso illecito della sorveglianza elettronica. Mansoor è solo uno dei tanti difensori dei diritti umani vittima di software spia sviluppati da aziende di cybersorveglianza come NSO Group e Hacking Team.
Tali abusi sono più che sufficienti per creare un clima di paura tra gli attivisti che sperano di prendere parte alla COP28. Anche se gli Emirati Arabi Uniti promettono di dare “spazio agli attivisti del clima per radunarsi pacificamente e far sentire la propria voce”, resta da vedere come ciò si tradurrà nella pratica. A quali rischi potrebbero comunque andare incontro se parlassero della pessima situazione dei diritti umani negli Emirati Arabi Uniti o della mancata abolizione graduale dei combustibili fossili? Non lo sappiamo, perché il segretariato dell’UNFCCC e il governo non hanno nemmeno divulgato l’accordo con il paese ospitante, che è lo standard minimo di trasparenza per una COP.
Gli Emirati Arabi Uniti non sono certo unici nel loro atteggiamento ostile verso la società civile. In tutto il mondo, vari paesi stanno reprimendo più severamente chi manifesta, applicando in modo scorretto la normativa vigente per mettere a tacere il dissenso climatico e promulgando nuove leggi per criminalizzare le proteste, spesso su richiesta di potenti compagnie petrolifere. Alcune di queste leggi hanno come bersaglio diretto gli attivisti del clima, il che indica che riunioni come le COP annuali sui cambiamenti climatici rappresentano un motivo di preoccupazione per i governi repressivi.
Nonostante il 2023 sia stato un altro anno di ondate di calore e precipitazioni da record, difficilmente la COP28 conseguirà risultati concreti. Tale prospettiva è tanto ingiusta quanto tragica. Le persone che più soffrono a causa dei cambiamenti climatici non sono i capi di stato o i dirigenti delle compagnie petrolifere. Negli Emirati Arabi Uniti e in altre parti del mondo, a subire maggiormente la crisi sono spesso le stesse persone che affrontano discriminazione, emarginazione e scarsa protezione da parte dei loro governi.
Poiché è del futuro di queste persone che si discuterà alla COP28, il loro coinvolgimento, l’attivismo e gli appelli per una maggiore assunzione di responsabilità sono essenziali. È attraverso la società civile che riusciremo a smascherare l’ambientalismo di facciata e ad arrivare alle soluzioni promesse da tempo. Le conferenze internazionali per discutere di minacce esistenziali a livello globale otterranno risultati tangibili solo se tutte le parti in causa saranno libere di esprimere critiche, radunarsi e manifestare pacificamente. Leggi repressive, un clima di paura e l’imprigionamento dei dissidenti interni servono esclusivamente a sostenere i difensori dello status quo.
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At the end of a year of domestic and international upheaval, Project Syndicate commentators share their favorite books from the past 12 months. Covering a wide array of genres and disciplines, this year’s picks provide fresh perspectives on the defining challenges of our time and how to confront them.
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NEW YORK – Per scongiurare un cambiamento climatico dagli effetti catastrofici serve una società civile forte e attiva. La prossima Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP28) a Dubai quasi certamente dimostrerà ancora una volta che, se ci affidiamo a istituzioni grandi e potenti come i governi e le multinazionali, il fallimento è assicurato.
Le aziende di combustibili fossili sono consapevoli di aver contribuito al cambiamento climatico fin dagli anni settanta, ma nonostante questo continuano a trivellare e a espandere le loro operazioni. Sebbene i governi abbiano formalmente affrontato il problema con l’adozione della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) e dell’Accordo di Parigi sul clima, l’ultimo Production Gap Report mostra quanto poco significhino questi impegni nella pratica. Tra adesso e il 2030, la produzione nei venti principali paesi produttori di combustibili fossili sarà più che raddoppiata rispetto alla quantità utile a contenere il riscaldamento globale entro 1,5° Celsius.
L’autoregolamentazione da parte dei governi e delle aziende di combustibili fossili è purtroppo insufficiente, anche perché spesso essi sono una cosa sola. Per troppo tempo, gli uni e le altre hanno cercato di placare i timori dei cittadini promuovendo un ambientalismo di facciata, il cosiddetto greenwashing, e la promessa di soluzioni tecnologiche miracolose come la cattura e lo stoccaggio del carbonio. E qualora tali stratagemmi non riescano ad acquietare alcuni segmenti dell’opinione pubblica, molti di questi stessi governi e aziende sono fin troppo pronti a ricorrere alla soppressione della libertà di espressione, di associazione e di assemblea pacifica.
Solo attraverso l’azione collettiva, il supporto attivo e la partecipazione della società civile ai processi decisionali si potranno costringere i governi a fare quanto è necessario per eliminare gradualmente i combustibili fossili, sostenere la transizione verso le rinnovabili e proteggere i diritti umani in un mondo caratterizzato da condizioni climatiche e siccità sempre più estreme. Ma la società civile non può prosperare senza uno spazio civico, cioè uno spazio per il dibattito pubblico in cui i cittadini possano criticare o sollecitare i potenti senza timore o rischio di repressione. Alla COP28, al di fuori del perimetro protetto della “zona blu”delle Nazioni Unite, di fatto non ci sarà alcuno spazio civico.
Dubai è una delle città più costose al mondo, il che significa che vitto, alloggio e altre spese avranno costi proibitivi per la maggior parte delle persone, specialmente quelle svantaggiate ed emarginate, che sono tra le più colpite dalla crisi climatica. Inoltre, negli Emirati Arabi Uniti è illegale anche solo criticare il governo o esprimere idee ritenute “dannose per l’interesse pubblico”, e gli stranieri possono essere arrestati per commenti fatti mentre si trovano nel paese. Durante la primavera araba del 2011 qualunque accenno di dissenso è stato represso in modo rapido e con la forza. Ancora oggi, decine di attivisti per i diritti umani e dissidenti sono detenuti arbitrariamente – tra questi sessanta membri di “UAE-94”, poi sottoposti a un processo collettivo nel 2013. Quattro anni dopo, gli Emirati Arabi Uniti hanno arrestato Ahmed Mansoor, l’unico emiratino rimasto ancora attivo sul fronte pubblico nella difesa dei diritti umani.
Il governo ha proseguito la sua attività di repressione in vista della COP28 interrompendo le comunicazioni tra molti prigionieri e le loro famiglie, incriminando gli emiratini rimpatriati dopo aver cercato rifugio all’estero, e respingendo gli appelli dell’Onu per la liberazione dei prigionieri di coscienza.
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Gli Emirati Arabi Uniti non sono certo unici nel loro atteggiamento ostile verso la società civile. In tutto il mondo, vari paesi stanno reprimendo più severamente chi manifesta, applicando in modo scorretto la normativa vigente per mettere a tacere il dissenso climatico e promulgando nuove leggi per criminalizzare le proteste, spesso su richiesta di potenti compagnie petrolifere. Alcune di queste leggi hanno come bersaglio diretto gli attivisti del clima, il che indica che riunioni come le COP annuali sui cambiamenti climatici rappresentano un motivo di preoccupazione per i governi repressivi.
Nonostante il 2023 sia stato un altro anno di ondate di calore e precipitazioni da record, difficilmente la COP28 conseguirà risultati concreti. Tale prospettiva è tanto ingiusta quanto tragica. Le persone che più soffrono a causa dei cambiamenti climatici non sono i capi di stato o i dirigenti delle compagnie petrolifere. Negli Emirati Arabi Uniti e in altre parti del mondo, a subire maggiormente la crisi sono spesso le stesse persone che affrontano discriminazione, emarginazione e scarsa protezione da parte dei loro governi.
Poiché è del futuro di queste persone che si discuterà alla COP28, il loro coinvolgimento, l’attivismo e gli appelli per una maggiore assunzione di responsabilità sono essenziali. È attraverso la società civile che riusciremo a smascherare l’ambientalismo di facciata e ad arrivare alle soluzioni promesse da tempo. Le conferenze internazionali per discutere di minacce esistenziali a livello globale otterranno risultati tangibili solo se tutte le parti in causa saranno libere di esprimere critiche, radunarsi e manifestare pacificamente. Leggi repressive, un clima di paura e l’imprigionamento dei dissidenti interni servono esclusivamente a sostenere i difensori dello status quo.